Negli ultimi venticinque anni di storia italiana notiamo una evidente differenza tra ciò che accade al nostro paese rispetto ai suoi principali partner europei. Guardando al PIL pro capite (figura 1), l’andamento del dato italiano è notevolmente arretrato rispetto a quella di Germania, Francia e Spagna.

Figura 1: il dato del PIL pro capite mostra plasticamente il trend positivo di Germania e Spagna, mentre Francia e Italia non riescono ancora ad agganciare i ritmi di cresita degli altri due partner europei. In particolare dopo il 2001, lo scarto tra i due gruppi diventa evidente, anche se la Francia tenta di mantenersi attaccata al treno ispano-tedesco.
Per quanto controverso possa essere l’indicatore, il PIL pro capite è utilizzato per riassumere il livello degli standard di vita dei diversi paesi. Da questo punto di vista la statistica dell’Italia è preoccupante anche alla luce del crescente movimento nazional-populista che, seppur nelle sue diverse articolazioni, alle ultime elezioni si è dimostrato capace di ottenere la maggioranza dei seggi in Parlamento. Anche se le diverse forze politiche afferenti a questo schieramento non dovessero riuscire a formare un governo, un tale campanello d’allarme non va certamente sottovalutato.
Le poche riforme italiane dal 2010 in avanti hanno dimostrato di non essere incisive sulle potenzialità di crescita del Paese. Questo in buona parte è dovuto al fatto che gli effetti di tali provvedimenti siano stati dilazionati nel tempo o, ad esempio per i tagli di spesa, si è preferito tagliare il tendenziale di crescita. Purtroppo però il contesto di emergenza in cui si è operato non ha potuto tenere conto del momento di difficoltà che l’economia nazionale affrontava in seguito alle crisi del 2007/08 e a quella successiva dei debiti sovrani, cui era dovuta peraltro la situazione emergenziale. I cittadini italiani si sono trovati a fronteggiare i costi immediati delle riforme che hanno amplificato gli effetti di una situazione di insicurezza economica. In quel momento hanno trovato nel movimento nazional-populista la risposta alle loro paure.
Guardando la situazione un po’ più in profondità vediamo infatti che altri dati non sono poi così confortanti. Facendo riferimento alla disoccupazione comparata rispetto agli altri partner europei (Figura 2), è evidente come essa sia in linea con quella francese e certamente minore di quella spagnola che rimane su valori superiori al 15%. Questo dato però non riflette compiutamente la dinamica occupazionale (Figura 3) in cui il nostro Paese resta fanalino di coda.

Figura 2: mostra il tasso di disoccupazione dei quattro Paesi europei (Italia, Germania, Francia e Spagna) nel periodo 1995-2017. E’ evidente come, sebbene in decisa correzione, il dato spagnolo sia ancora superiore al 15%, in difformità rispetto a quello francese e italiano che si attestano attorno al 10% e ancora più lontano da quello tedesco, sotto il 5%. I quattro grafici convergono tra il 2000 e 2008 quando, dopo la crisi, tornano a divergere in maniera importante.

Figura 3: mostra il tasso di occupazione nel periodo 1995-2017 per Italia, Germania, Francia e Spagna. Il dato italiano, oltre ad essere il peggiore dei quattro per quasi tutto il periodo, tranne prima del 1998 e tra il 2012-2014, non supera mai il 60% di occupazione. La Francia rimane stabile su un tassoattorno al 60-65%. La Germania evidenzia un trend crescente soprattutto dal 2004 in poi attestandosi a 75,2% di occupati nel 2017. La Spagna ha un dato molto volatile: in crescita dal 1995 al 2007 (65,8%) poi, complice la crisi, inverte la tendenza fino al 54,8 del 2013. Infine riprende a correre toccando il 61,1% nel 2017.
Questi numeri sono un allarmante sintomo dell’incapacità italiana di crescere e quindi di creare posti di lavoro. Se leghiamo questo fatto alla scarsa incisività delle riforme e ai loro costi immediati, ne ricaviamo il quadro di un paese che rimane in mezzo al guado in una situazione di perenne incertezza tra l’agire e l’eccessiva cautela. Oltre ai problemi sociali prodotti da questa situazione c’è il rischio concreto che un rallentamento della crescita mondiale possa influire anche sulla sostenibilità del debito pubblico italiano che pare tutt’altro che salda.
A completamento di questo quadro consideriamo la disuguaglianza dei redditi tra il 2000 e il 2017 (Figura 4).

Figura 4: l’indice di Gini misura la disuguaglianza dei redditi nei quattro paesi presi in considerazione per il periodo 200-2017. Dal grafico si nota come in Italia dal 2004 la disuguaglianza sia rimasta stabile attorno al 33%, in Spagna si sia passati dal 31% ad oltre il 34% nello stesso periodo e la Francia ruoti attorno al 29%. La Germania mostra una dinamica interessante perché nel momento in cui inizia a crescere in maniera sensibile passa da 25% ad oltre 30% nel 2007, poi la disuguaglianza diminuisce in concomitanza con la crisi e in seguito rimane attorno al 29%.
Un dato interessante che ricaviamo dall’Indice di Gini riguarda il rapporto tra la crescita e la disuguaglianza. Vediamo che in Italia la disuguaglianza dei redditi è stabile attorno al 33% da 13 anni ormai. Nonostante le riforme effettuate nel periodo di crisi, queste non hanno aumentato il divario precedente. Un caso interessante è quello tedesco dove la crescita, dovuta alle riforme dei primi anni 2000, ha portato il paese ad un forte aumento della disuguaglianza. Essa però si è stabilizzata negli anni successivi al 2007 quando, dopo la crisi, il Paese ha continuato a crescere a ritmi importanti. Possiamo interpretare questo dicendo che le riforme abbiano intaccato inizialmente la disuguaglianza nel momento in cui si sono presentati i loro costi immediati, mentre è rimasta poi stabile nel periodo in cui esse hanno dispiegato i loro effetti sulla crescita.
Questo non sembra avvenuto in Italia dove probabilmente la scarsa incisività delle riforme non ha permesso di avere un effetto sulla crescita, non modificando neanche la distanza tra i percettori di reddito, vista anche la tendenza a posticipare i costi di alcuni provvedimenti. Non si può neanche affermare, per quanto riguarda l’Italia, che essa sia stata colpita da un neoliberismo selvaggio che ha ridotto drasticamente la spesa pubblica e creato un divario tra i più ricchi e i più poveri. Per quanto questa tesi sia popolare, nei fatti non pare esserci stato un fenomeno del genere sia dal lato delle parziali riforme, sia dal lato della disuguaglianza che è rimasta stabile. Se prendiamo il 2004 come punto di partenza notiamo che da quel momento, in un contesto di crescita, la disuguaglianza italiana è diminuita. Invece in seguito al 2008 e alla crisi internazionale essa è cominciata a risalire.
In Spagna, se prendiamo il periodo 2001-2007, durante il quale il paese sperimenta una forte crescita, sebbene viziata da una vistosa bolla immobiliare, la disuguaglianza rimane sostanzialmente intorno al 32%. Aumenta nel periodo successivo caratterizzato non a caso da una diminuzione del PIL. I dati ci mostrano come in tutti i paesi presi in considerazione la crescita aiuti, se non a ridurre la disuguaglianza, a mantenerla in qualche modo stabile. Dal lato dell’occupazione la crescita invece è ancora sinonimo di posti di lavoro per tutti e quattro i paesi che abbiamo analizzato. Combinando questo dato con la stabilità della disuguaglianza possiamo affermare che una solida crescita permette il miglioramento degli standard di vita di una fetta maggiore della popolazione che la sperimenta.
Vale la pena osservare una variabile cui si può imputare una crescente disuguaglianza. La cosiddetta “4° rivoluzione industriale”, soprattutto a causa delle nuove tipologie di lavori, può essere considerata come una delle recenti tendenze che possano aver contribuito all’aumento della disuguaglianza. Questo è dovuto in particolare al divario di competenze che richiedono le nuove tecnologie. Tali competenze, essendo concentrate in una minoranza della popolazione lavorativa e legate a dei vantaggi di produttività notevoli, sono meglio remunerate rispetto a quelle tradizionali. Confrontando però l’indice di Gini delle prime due manifatture d’Europa, Italia e Germania, notiamo sorprendentemente che la prima riporta un dato assoluto molto maggiore della seconda, nonostante la seconda sia uno dei capofila mondiali nei nuovi processi produttivi automatizzati.
La disuguaglianza è certamente un indicatore importante per valutare la performance economica di un Paese e il benessere dei suoi cittadini, tuttavia anch’esso non è esente da critiche che vengono da più parti. Cerchiamo allora di allargare ulteriormente il campo d’indagine e vedere se l’andamento della povertà. Il rischio di persone maggiorenni di cadere in povertà (Figura 5) è significativamente minore in Germania e Francia rispetto all’Italia e alla Spagna. Questa statistica sembra proprio fare il paio con quella precedente sulla disuguaglianza, infatti in entrambe i casi le coppie Francia-Germania e Spagna-Italia sembrano condividere situazioni analoghe.

Figura 5: denota come la popolazione maggiorenne a forte rischio di povertà sia variata nel periodo 2003-2016. Mentre Italia e Spagna hanno subito le dure conseguenze di una crisi globale che ha fatto sentire tutto il suo peso, soprattutto sul paese iberico che passa dall’essere il meno rischioso nel 2009/10 al primato nel 2014. In controtendenza Germania e Francia migliorano la propria posizione in concomitanza con la ripresa post 2010/11.
In questo caso rileviamo come il dato spagnolo sia stato fortemente peggiorato dalla crisi recente, passando dallo 0,5% del 2008 al picco del 2,2% del 2014. Sempre sul dato spagnolo però registriamo una correzione che lo porta al 1,9% due anni dopo. Evidentemente anche il dato italiano ha sofferto la crisi anche se, a differenza del paese iberico, la parabola intrapresa dal 2009 in poi non sembra voler dar segni di inversione.
Nel considerare il rapporto tra crescita e disuguaglianza vorremmo evidenziare che non necessariamente un basso indice di Gini sia di per sé una garanzia per la condizione economica della popolazione di uno Stato. Come tutti i dati che si prendono in considerazione anch’esso va letto in maniera critica considerando anche altre variabili economiche. Un esempio rivelatore di una situazione particolare in cui tale variabilità non risulta essere molto informativa è quello del Venezuela. Il Paese in questione ha il più basso indice di Gini di tutto il Sudamerica. Questo farebbe supporre un benessere diffuso nella popolazione ma se guardiamo al tasso d’inflazione e ne seguiamo le cronache vediamo che esso è in preda ad una spirale inflazionistica che porta una mancanza diffusa di beni di consumo e che spinge la sua popolazione ad emigrazioni di massa (dal 2015 un venezuelano su venti ha lasciato il paese1) verso i paesi contigui, in particolare Colombia e Brasile che fanno registrare due degli indicatori di disuguaglianza più alti di tutta l’America Latina. In sintesi una bassa disuguaglianza può voler dire che siamo o tutti ricchi o tutti poveri.
Per i motivi sopracitati più che un problema di disuguaglianza dovremmo discutere della grande questione della mobilità sociale. Se infatti funzionasse l’ascensore sociale premiando il merito e l’impegno probabilmente le differenze di reddito sarebbero socialmente più tollerate. Su questo fronte anzi potremmo sostenere che la diseguaglianza può addirittura creare un incentivo, legati al fatto che i soggetti con uno status inferiore vogliano aspirare ad ascendere la scala sociale. D’altro canto è anche vero che una elevata variabilità dei redditi non permette ad una parte consistente della popolazione di raggiungere livelli minimi di opportunità e livelli d’istruzione. Per questo è essenziale che lo Stato si faccia carico di queste istanze nella sua opera di perequazione delle opportunità iniziali, senza eccedere nella pervasività degli interventi.
1 Fonte: OIM, Organizzazione Internazionale delle Migrazioni
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