Con l’avvento della globalizzazione, il mercato ha assunto caratteristiche sempre più globali, caratterizzate da prodotti di consumo standardizzati realizzati su larga scala. Ciò richiede processi produttivi molto ampi per un ventaglio di consumatori altrettanto vasto. Questo ha dato vita alle imprese multinazionali, aziende con dimensioni più grandi rispetto alle medie imprese, adeguate a processi di quantità maggiore. Questo articolo vuole mostrare una panoramica introduttiva sulla nascita e gli effetti di questo sistema nato con lo sviluppo della globalizzazione.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il flusso di investimenti diretti esteri (IDE) si è concentrato maggiormente all’interno di uno spazio idealmente realizzato da Unione Europea, Stati Uniti e Giappone. I tre giganti divennero i maggiori attori economici della globalizzazione, gestendo e indirizzando i flussi. Ciò portò a una maggior propensione da parte delle imprese a stipulare accordi con altre imprese a livello internazionale, stabilendo una partnership, chiave della competizione internazionale. Tale competizione sfrutta, ancora oggi, il principio della massimizzazione del profitto al minor costo, sfociando spesso nelle cosiddette competizioni sleali, tramite una corsa al ribasso. Da questo procedimento prende vita un importante fenomeno: quello della delocalizzazione. Si tratta di un fenomeno sviluppatosi negli anni Sessanta ed esploso negli anni Novanta, grazie allo sviluppo tecnologico, all’abbattimento dei costi di trasporto e alla globalizzazione che ha permesso una migliore comunicazione in tutto il mondo. La delocalizzazione consiste nel trasferimento di attività, capitali e mano d’opera in zone del mondo in cui si può godere di vantaggi economici. Gli imprenditori, in questo modo, producono dov’è meno costoso e vendono dove si trova il potere d’acquisto. Generalmente, infatti, vengono trasferite all’estero fasi della produzione già sviluppate all’interno del proprio home country e che richiedono un moderato impiego di mano d’opera. Ciò trova la sua ragion d’essere nel minor costo che deriva dalla delocalizzazione presso un host country e che, nella maggior parte dei casi, coincide con uno dei Paesi in via di sviluppo.
Gli effetti che l’apertura di tali filiali porta con sé sono molteplici. Sicuramente, la loro installazione favorisce lo sviluppo di un’attività industriale che può stimolare anche la competizione locale. Ciò però diventa uno scenario poco probabile all’interno di quei Paesi in cui la competizione con una multinazionale così potente, coincide con un aggravamento economico. Di conseguenza, si realizza un monopolio: le filiali continuano a essere amministrate da dirigenti dell’home country, mentre l’host country rappresenterà la forza lavoro.
L’effetto positivo dell’aumento del tasso occupazionale viene, così, tristemente contrastato dal conseguente sfruttamento (per quel principio di massimizzazione del profitto) che l’occupazione porta con sé quando ci si trova in questi territori, sfociando spesso in lavoro minorile. Ciò ha un effetto consecutivo anche all’interno dei Paesi sviluppati: quello della disoccupazione del lavoro non specializzato, causato dalla continua delocalizzazione.
Tra i fenomeni riguardanti la popolazione locale, ne emerge uno che porta con sé effetti indiretti su di essa: il land grabbing. Si tratta dell’appropriamento di terra locali da parte delle IMN con la conseguenza di perdita di controllo del proprio territorio ed aumento della dipendenza estera. Oltre ciò, dev’essere considerato anche l’impoverimento a cui le popolazioni indigene vanno incontro, avendo meno terreni fertili da sfruttare per la propria sussistenza (piuttosto che per la mercé del mercato globale).
Ulteriore effetto è quello di creare rischi di instabilità nei Paesi in via di sviluppo: se da un lato la globalizzazione finanziaria aumenta l’efficienza economica, permettendo una migliore allocazione del fattore capitale, dall’altro aumenta i rischi di instabilità causati dalla mancata corrispondenza tra scadenza di debiti e crediti (maturity mismatch) e mancata corrispondenza tra valute (currency mismatch), quest’ultimo aggravato anche dall’immediata risposta che i movimenti di capitale a breve termine forniscono agli shock negativi.
Le metodologie applicate dalle IMN, analizzate finora, piuttosto che essere il fattore trainante dell’economia locale, sono – come accennato nel paragrafo precedente – causa di una dipendenza del Paese ospitante nei confronti di quello di provenienza. Questo fenomeno ha preso il nome di neocolonialismo. Al contrario di ciò che avviene all’interno dei cluster nazionali, in queste situazioni non si realizza quella condivisione di tecnologie e conoscenze che mirano al decollo economico. Attualmente, infatti, la creazione delle imprese multinazionali avviene seguendo la formula della Join Venture: un contratto tramite il quale più imprese si impegnano a collaborare tra loro per realizzare un piano di investimenti che avrà come fondo comune quello di un medesimo patrimonio tecnico-aziendale e, come conseguenza, quello della divisione del rischio. All’interno dei Paesi poveri, però, questo modello ha poche possibilità di riuscita a causa dell’eccessiva debolezza economica e di una forte inesperienza contrattuale che non gli permette di portare a termine accordi di questo tipo.
Come suggerisce Stefano Marcheselli, in un articolo pubblicato nel 2018, la conseguenza degli effetti appena citati che portano alla composizione del prezzo di un bene prodotto da una multinazionale dislocata, possono essere così divisi:
- 3% costo della manodopera
- 5% dazi e trasporti
- 6% costi generali di produzione
- 11% costo materiali
- 15% costi e profitti del marchio
- 60% tasse, costi e profitti del distributore
Nello stesso anno della pubblicazione dell’articolo, è entrata in vigore la Convenzione Multilaterale per l’Attuazione di Misure Relative alle Convenzioni Fiscali Finalizzate a Prevenire l’Erosione della Base Imponibile e lo Spostamento dei Profitti. Scopo della Convenzione è, dunque, quello di stabilire e prevenire i frequenti abusi di evasione ed elusione da parte delle imprese multinazionali. Inseguendo la massimizzazione dei profitti, infatti, le IMN sono solite a sfruttare le norme fiscali internazionali per pagare meno tasse. Un esempio di questo può essere trovato negli accadimenti in Burkina Faso nel 2015. Nonostante l’approvazione di una legge sulle miniere che ha portato alla realizzazione di un fondo per lo sviluppo locale, dei circa 30 miliardi di CFA (ca 45,7 milioni di €) che le imprese avrebbero dovuto pagare nel biennio 2017-19, solo il 9,47% di quella cifra è stato realmente versato.
In conclusione, benché gli effetti positivi siano comunque presenti all’interno degli host countries, appare evidente che non è abbastanza. La mancanza di una soggettività giuridica da parte delle imprese multinazionali funge da escamotage a quelle che sono le loro responsabilità. Le cui cause possono essere ricondotte a un abuso di potere ed elusione di pagamenti che non accennano a diminuire. In attesa di avere una regolamentazione più rigida nei confronti del loro operato nel mondo, il divario tra Nord e Sud si fa sempre più ampio.
G.Pelucco per B.Cy.
References
Della Rosa P., Effetti, limiti e potenzialità della globalizzazione: il quadro economico. SpringerLink, 2007
Roiatti F., Multinazionali in Africa: lo sfruttamento che spiega perché è così povera. Osservatorio diritti, 26 Novembre 2020
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Marcheselli S., Non è tutto oro quello che luccica: le multinazionali e lo sfruttamento ella mano d’opera nel Terzo Mondo. Human Europe Capital, 2008
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