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L’Italia e la Belt & Road Initiative: opportunità e rischi

La Belt & Road Initiative (BRI), annunciata nel 2013 dal Presidente Xi Jinping, integra un aspetto cruciale della strategia della Cina volta ad incrementare l’influenza di Pechino nel mondo, prefigurando un riordino dello spazio multipolare a trazione cinese. Non solo ambizione economica, dunque, benché venga ufficialmente presentata come un progetto infrastrutturale di sviluppo economico attraverso una maggiore integrazione regionale ed internazionale del paese, ma anche indirizzo di politica estera di ampia portata, volto ad estendere il braccio geo-strategico cinese istituendo uno spazio stabile e favorevole allo sviluppo a lungo termine dell’economia. La BRI delinea un progetto di modernizzazione infrastrutturale collaborativa in una cornice di partnership mutualmente vantaggiosa per i paesi aderenti, obiettivo imprescindibile per la crescita e di cui l’attuale emergenza sanitaria ha ulteriormente evidenziato l’importanza, tra gli obiettivi: ridisegnare le rotte del commercio globale, favorire l’integrazione economica e la connettività al fine di promuovere gli scambi internazionali e l’internazionalizzazione delle imprese in un contesto competitivo, assorbire la sovracapacità produttiva cinese (Battaglia, 2017). La Banca Mondiale stima che il commercio internazionale tra i corridoi BRI sia inferiore al 30% rispetto al potenziale, così come gli investimenti diretti esteri (IDE), del 70% al di sotto della disponibilità effettiva; solo nel primo trimestre del 2020 il valore totale dei progetti implementati in ambito BRI aveva superato i 4000 miliardi USD, per un ammontare di 3164 progetti (di cui circa la metà prevedevano un coinvolgimento cinese). Il quadro estremamente volatile dovuto alla situazione epidemiologica mondiale, tuttavia, ha costretto anche la Cina ad assumere maggiore prudenza sui piani internazionali di spesa e sulla proiezione estera, non risparmiando i grandi progetti della nuova via della seta – molti dei quali sono stati ridimensionati – visto il complicarsi del quadro interno sul fronte della ripresa economica e della gestione del debito aggregato (cresciuto annualmente del 20% dal 2008); circostanza del resto non estranea al complesso dei paesi coinvolti (Fatiguso, 2020). Il progetto BRI si articola lungo due direttrici principali: la Silk Road Economic Belt, cintura economica terrestre che raggiunge l’Europa traversando l’Asia centrale, il Medioriente e la Russia, e la 21th Century Maritime Silk Road, la cintura economica marittima che giunge nel cuore del Mediterraneo dopo aver costeggiato il sud-est asiatico, l’India e l’Africa orientale. Nel corso degli anni, ai progetti infrastrutturali si sono aggiunte le tecnologie digitali (Digital Silk Road), allo scopo di facilitare l’ascesa di Pechino come superpotenza tecnologica globale, e progressivamente si è fatta strada la Healthcare Silk Road, per garantire la sicurezza sanitaria nelle economie emergenti; ad oggi sono ben 130 i paesi che hanno firmato accordi nell’ambito BRI (corrispondenti al 55% del PIL globale) (Cheney, 2020).
La partecipazione italiana alla macroscopica iniziativa cinese, sancita dal Memorandum of Understanding (MoU) siglato a Roma nel 2019 e dai successivi 29 accordi, ha sollevato un uragano diplomatico con i tradizionali partner europei ed americani – sebbene il documento principale sia privo di efficacia vincolante – ma anche all’interno delle diverse forze politiche del paese, polarizzando il dibattito dal plauso allo scetticismo, fino alla critica esplicita dell’iniziativa in difesa dell’interesse nazionale. L’area di cooperazione delineata dal MoU spazia dal dialogo politico ai trasporti, dalla logistica alle infrastrutture, dall’apertura delle reti commerciali agli investimenti, dalla cooperazione finanziaria allo sviluppo sostenibile, riflettendo gli interessi reciproci ad una maggiore integrazione delle economie, da ricercarsi attraverso la progressiva implementazione di accordi vincolanti nei comparti specifici (Dossi, 2020).
Al fine di enucleare i potenziali benefici e rischi della partecipazione del nostro paese al progetto BRI occorre partire da una premessa: l’Italia non è mai stato un partner commerciale maggioritario per la Cina (l’intercambio commerciale relativo al 2018 è stato di circa 13 miliardi di euro, fonti ANSA), diversamente da altri paesi dell’Unione Europea come Germania (il cui intercambio nello stesso anno ha superato i 94 miliardi di euro) e Francia che, sebbene non abbiano siglato alcun tipo di accordo o MoU nell’ambito BRI, vantano relazioni commerciali consolidate da tempo con la Cina; analogamente, i rapporti con Pechino non erano prioritari in termini di politica estera del nostro paese, saldamente integrato nella sfera di influenza dei partner occidentali. Sotto questo profilo, una cooperazione economica significativa con la Cina può costituire, in primo luogo, un’opportunità per accorciare le distanze rispetto ai nostri vicini europei e costituire la premessa per un rapporto privilegiato con il partner orientale. L’Italia costituisce infatti il primo membro del G7, nonché terza economia europea, a sostenere l’iniziativa e il primo vero endorsment da parte dell’Occidente, appoggio che potrebbe potenzialmente estendersi agli alleati storici, coronando così le ambizioni cinesi (Groening, 2020).
Il valore aggiunto del nostro paese risiede evidentemente nella posizione naturale strategica che occupa – al centro del mar Mediterraneo – costituendo un crocevia tra l’area MENA, fonte di approvvigionamento energetico, i ricchi mercati europei e l’Asia occidentale. L’Italia è dunque terminale periferico fondamentale ai fini dello sviluppo della BRI, considerato l’interesse prioritario cinese a disporre di rotte marittime commerciali ed energetiche sicure (Indeo, 2017). Secondo le stime dell’OCSE, nel 2050 le reti ferroviarie tra Europa e Asia intercetteranno dal 2,5% al 5% dei volumi commerciali in transito via mare, in ragione dei costi ingenti del trasporto su rotaia e la mancanza di omogeneità nei collegamenti euroasiatici: gli investimenti nel comparto ferroviario – previsti anche in ambito BRI – contribuiranno certamente a ridurne l’entità, ma difficilmente eguaglieranno i vantaggi delle vie marittime (Confetra, SRM). A dimostrazione ulteriore della rilevanza per gli interessi cinesi, basti considerare che fino alla metà degli anni Novanta la rotta transpacifica rivestiva un’importanza prioritaria, assorbendo il maggior volume degli scambi da e per la Cina, destinando alla via marittima verso l’Europa un margine residuale del 25%; nel 2015 tale gap è stato ampiamente ridimensionato a vantaggio della rotta europea, lungo la quale oggi circolano il 42% dei traffici globali, con prevedibili impatti sullo sviluppo infrastrutturale nel mar Mediterraneo (significativamente, negli ultimi dieci anni gli investimenti cinesi nell’area hanno superato i 129 milioni). Inoltre, mentre nei primi anni 2000 solo il 34% delle merci che transitavano dal canale di Suez approdavano nei porti mediterranei (la maggior parte veniva infatti assorbita dagli scali del nord Europa), oggi tali volumi raggiungono il 56% dei beni complessivamente scambiati (Fardella, Prodi, 2018). Dal rinnovato interesse da parte della Cina per il Mediterraneo come hub economico discende la crescente attenzione per gli scali mercantili italiani, collocati alle porte dell’Europa continentale che costituisce, vale la pena di ricordarlo, interlocutore chiave per Pechino e partner commerciale maggioritario (significativi a tal proposito i dati EUROSTAT relativi al 2020, che stimano il valore dell’intercambio a 709 miliardi USD). La funzione prioritaria dei porti italiani si evince chiaramente dalle molteplici proposte e manifestazioni di interesse in chiave di sviluppo e modernizzazione che hanno riguardato le strutture portuali di Genova, Trieste, Venezia e Vado Ligure, in ragione anche degli efficienti collegamenti ferroviari del nord Italia con l’Europa centro-settentrionale. Tale obiettivo è peraltro condiviso da gran parte della classe dirigente italiana, che in varie occasioni ha sottolineato le opportunità di sviluppo degli scali portuali nell’ambito del progetto BRI (Groening P., 2020). Tuttavia, occorre precisare che per il momento si tratta in gran parte di progetti – seppur promettenti – e non di accordi effettivamente operativi (fatta eccezione per lo sviluppo del porto commerciale di Vado Ligure), il cui potenziale resta dunque, almeno per il momento, sulla carta (Ferrari C., Tesi A., 2020).
L’argomentazione dei sostenitori dell’adesione italiana alla BRI si costruisce prevalentemente attorno alle opportunità di crescita del commercio internazionale tra i paesi partecipanti, incentivato dalla miglior connettività e qualità delle infrastrutture che efficienterebbero i trasporti, quindi le catene regionali e globali di produzione. Da non trascurare, inoltre, è la possibilità per il nostro paese di beneficiare di ulteriori economie di scala (Hui Lu et al.) come stimolo significativo alla crescita. Primario nell’ottica dei promotori è altresì la riduzione del disavanzo commerciale con la Cina (14 miliardi nel 2020) che grava pesantemente sul nostro debito pubblico, costituendo l’elemento di maggior criticità da affrontare. Nondimeno, è opportuno sottolineare come nell’ultimo decennio il valore dei prodotti made in Italy complessivamente esportati in Cina sia più che raddoppiato (dai 6,3 miliardi di euro nel 2007 ai 13,5 miliardi nel 2018), in virtù dell’elevata qualità e del rinomato appeal della nostra produzione nazionale. La Cina rappresenta oggi il 9° paese di destinazione dell’export italiano, che ha visto nel 2017 un incremento del 22,2% rispetto ai dati dell’anno precedente, mentre Pechino occupa il 3° posto tra paesi di provenienza del nostro import (MAECI, 2020). Il ventaglio di prodotti italiani destinati al mercato cinese è ampio e abbraccia una vasta gamma di settori, in particolare: meccanica strumentale, mezzi di trasporto, tessile e abbigliamento, prodotti chimici, farmaceutici e medicinali. Le opportunità per le esportazioni italiane, tuttavia, non possono prescindere da un’approfondita conoscenza del mercato cinese e delle sue regole, accanto alle preferenze dei consumatori; sforzi che si giustificano anche alla luce delle enormi prospettive di crescita dell’economia. Sebbene la nostra quota di mercato sia ancora modesta, le imprese italiane hanno un buon margine per raccogliere una sfida di tale portata, anche in ragione del cambiamento del modello economico cinese, oggi orientato al rilancio dei consumi e dei servizi, accanto ad un upgrade delle strutture produttive verso attività ad elevato valore aggiunto (SACE SIMEST, 2017). Oltre al vasto mercato cinese, le opportunità per le imprese italiane si riscontrano anche in molti degli altri paesi coinvolti nell’iniziativa, soprattutto i mercati dell’Asia centrale, contenuti ma promettenti in virtù dei nuovi modelli di produzione e consumo adottati.
Le opportunità potenzialmente più profittevoli, tuttavia, rilevano sotto il profilo degli investimenti, soprattutto in considerazione del quadro di bilancio piuttosto compromesso che grava sul nostro paese, pregiudicandone significativamente le opportunità di crescita. Anche alla luce delle prospettive disastrose per l’economia italiana e mondiale dalla diffusione della pandemia, non è da sottovalutare l’occasione costituita dalla BRI per attrarre IDE, soprattutto cinesi, in funzione di stimolo ad una crescita che da tempo stenta a decollare. Il circolo virtuoso derivante dalla modernizzazione infrastrutturale finanziata con l’aiuto di capitali stranieri, sulla base della ben collaudata expertise e know-how italiane, può costituire un impulso decisivo alla ricostruzione economica, generando asset dal valore crescente e offrendo l’opportunità anche a piccole e medie imprese italiane di affacciarsi nel panorama mondiale, sostenendone la concorrenza (Dossi, 2020). Dalla crisi dell’eurozona nel 2011, il nostro paese ha visto ridursi drasticamente il margine di manovra dei governi per attuare politiche fiscali espansive al fine di rilanciare i consumi e la crescita, in ragione dell’ingente debito pubblico (159,4 miliardi di euro nel 2020, secondo le stime della Banca d’Italia, con un aumento del 22,9% circa rispetto al 2019); analogamente, la compromissione del quadro complessivo ha indotto le banche ad assumere la massima cautela nel concedere crediti a famiglie e imprese, determinando un’ulteriore depressione degli investimenti e dunque del PIL aggregato del paese, aggravando ulteriormente il peso del debito e alimentando ragionevoli dubbi circa la sua sostenibilità nel lungo periodo. La difficoltà di attuare politiche fiscali accomodanti e iniettare capitali è dunque una realtà nota da tempo, un nervo scoperto della nostra economia che la recente crisi generata dalla pandemia ha contribuito ad incrementare.
Una breve digressione sull’attuale quadro macroeconomico italiano può essere utile ai fini della nostra analisi. I dati ISTAT relativi all’andamento del PIL italiano nel 2020 (in calo dell’8,9% rispetto al 2019) forniscono una visione poco confortante: la componente più compromessa è costituita dai consumi, che hanno visto una contrazione di 8,7 punti percentuali, riassestandosi ai livelli del 2014; coerentemente a tale tendenza, anche la proporzione di popolazione inattiva è cresciuta del 9,3%, con 425mila occupati in meno rispetto al febbraio 2020. Analogamente, la drastica riduzione del commercio internazionale ha determinato il collasso della domanda estera di beni nazionali, compromettendo anche la voce delle esportazioni nette costitutiva del PIL. Investimenti delle imprese hanno visto una contrazione del 12,5%, complice la sfiducia generalizzata e la restrizione del credito bancario che ne hanno inibito le potenzialità di crescita. In aggiunta, i numerosi – e necessari – provvedimenti emanati dal governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria sono in gran parte stati finanziati attraverso l’emissione di titoli di debito pubblico, aggravando la posizione debitoria del paese verso i mercati. Secondo le stime di Prometeia, già nel 2018 l’80% del debito era detenuto da operatori privati nazionali ed esteri, è facile dedurre da tale dato la vulnerabilità della posizione italiana se, in futuro, le preferenze degli investitori dovessero mutare, magari perché preoccupati dal peso del debito a fronte delle limitate prospettive di crescita, l’unica variabile che possa garantirne l’effettiva sostenibilità nel tempo. Si è trattato, tuttavia, di misure inevitabili in circostanze di simile eccezionalità: una contrazione della spesa pubblica avrebbe infatti provocato un ulteriore crollo dei consumi, con conseguenze prevedibili sul valore della produzione aggregata. Come facilmente intuibile, però, l’effetto di un incremento della spesa pubblica a sostegno del reddito ha effetti limitati al breve periodo, andando progressivamente ad esaurirsi quando l’orizzonte temporale si allunga e risultando dunque inefficace al rafforzamento della crescita economica. Alla luce di queste considerazioni, è evidente come maggiori opportunità di investimento per le imprese italiane all’estero (significative in tal senso le stime della Farnesina, che quantificano le opportunità per le nostre aziende di costruzioni in ben 40 paesi per un valore dei contratti di oltre 36 miliardi di euro, corrispondenti a circa il 40% del totale delle commesse aggiudicate dalle imprese edili italiane nel mondo), accanto alla capacità di attrarre IDE a sostegno delle nostre infrastrutture, costituiscano un’occasione significativa in un periodo così delicato per L’Italia (Confetra, SRM); le politiche economiche di ripresa post Covid-19, infatti, non possono prescindere dalla considerazione di generare consistenti investimenti su progetti che abbiano un orizzonte temporale significativo, riservando uno sguardo attento alla transizione ecologica e allo sviluppo sostenibile, comparto in cui il nostro paese e l’Europa hanno l’opportunità di eccellere.
Accanto alle occasioni della BRI, sussistono alcune criticità di cui è opportuno fare menzione, pur senza dare eccessivamente credito ai detrattori. L’Italia non è certamente un competitor alla pari, realtà che ha indotto alcuni a considerare esclusivi i benefici cinesi dall’iniziativa, in ragione soprattutto della competizione sussistente con l’Italia nei medesimi settori manifatturieri (risalente agli anni Novanta ed intensificatasi a seguito dell’ingresso della Cina nel WTO) in paesi terzi. Tale circostanza, tuttavia, non può essere ricondotta alla firma del MoU, siglato nel 2019 e i cui effetti saranno riscontrabili presumibilmente negli anni a venire, rendendo azzardata ogni conclusione in tal senso (Dossi, 2020). È altrettanto evidente che sia necessario uno sforzo notevole da parte di piccole e medie imprese italiane per “restare al tavolo”, sfruttando ogni possibilità di accesso ai mercati esteri nell’ottica di una strategia pubblico-privata che ambisca ad individuare opportunità profittevoli e creare un ambiente favorevole agli investimenti. In tal senso, è necessario alimentare un’attenta valutazione del rischio paese implicato nelle operazioni effettuate all’estero, dovuto essenzialmente alle differenze di tipo politico, economico e sociale sussistenti. L’Italia ha l’occasione di proporsi con offerte qualificate, eventualmente aprendosi al trasferimento di tecnologie e alla formazione tecnica in paesi terzi, prestando al contempo la massima attenzione a non “svendere” gli interessi nazionali, cedendo il controllo di attività strategiche ad attori esteri (si consideri in tal senso la cessione del porto del Pireo agli operatori cinesi) (Confindustria).
I rischi certamente sussistono, ma è un’opportunità politico economica cui l’Italia non può sottrarsi: la costante ascesa della Cina è un’evidenza, non resta che provare a trarne i maggiori benefici che si delineino per il nostro paese, a maggior ragione in reazione alle crescenti tensioni commerciali globali e alle derive protezionistiche degli ultimi tempi; rinunciare a tale opportunità, probabilmente, non farebbe che determinare la nostra marginalità nello scacchiere mondiale. Evidentemente, in che misura e secondo quali modalità sfruttare tale occasione è in gran parte rimesso all’iniziativa da parte italiana, attraverso la predisposizione di progetti e visioni di lungo periodo, alimentate da un crescente dibattito interno in ottica collaborativa (Dossi, 2020).
È altresì opportuno ricordare che l’Italia non è nelle condizioni economico finanziarie di determinare un approccio “in solitaria” alla BRI, premesso che la sua collocazione accanto agli alleati tradizionali europei e americani resta indiscussa e prioritaria, come più volte ribadito dalla classe dirigente italiana (Confetra, SRM). Serve dunque una strategia, innanzitutto comunitaria, in cui l’Italia conservi un ruolo attivo e di cui la sua collocazione strategica nel Mediterraneo costituisce la premessa (Groening P., 2020). Avviandoci alla conclusione dell’analisi considereremo dunque la posizione europea rispetto alla BRI, per lo più critica e alimentata da ragionevoli perplessità, che tuttavia potrebbe evolvere in un’opportunità significativa, se opportunamente affrontata. Le fonti di maggiore preoccupazione da parte europea riguardano il profilo regolatorio delle attività (soprattutto in relazione ai settori strategici), i cui standard rispetto alla Cina divergono significativamente: dalla disciplina giuslavoristica alla sostenibilità ambientale, dalla tutela della concorrenza ai criteri di trasparenza e due diligence che informano l’approccio al business europeo cui anche gli investitori stranieri e cinesi devono conformarsi per operare nello spazio dell’Unione, garantendo omogeneità nella regolazione e valutazione degli impatti economico-sociali delle attività. Una sintesi certamente non immediata, sebbene l’approccio dei partecipanti alla BRI si stia progressivamente evolvendo in tal senso (Isolani G., et al.). Un altro elemento di criticità, secondo la Commissione europea, sarebbe costituito dalla mancanza di reciprocità, ossia di pari opportunità per le aziende europee negli appalti all’interno di paesi aderenti alla BRI e nell’accesso al mercato cinese, in ragione anche delle strutture “opache” di molte imprese cinesi sussidiate dallo Stato e dunque in grado di competere con offerte talvolta fuori mercato. Significativo a tal proposito è da considerarsi l’accordo di principio sugli investimenti (CAI) recentemente siglato da Cina e Unione Europea, che fornirebbe alle aziende europee migliori opportunità di ingresso nel mercato cinese, premessa la necessità, peraltro non scontata, di conciliare tale accordo con il rigoroso meccanismo europeo di screening degli IDE, volto a proteggere i settori strategici da pratiche sleali e predatorie di operatori stranieri. Non da ultimo, si avanza il rischio dell’insostenibilità finanziaria per molti paesi (soprattutto di minori dimensioni) che contraessero un eccessivo indebitamento (ad esempio ricevendo IDE cinesi), incorrendo in una dipendenza finanziaria dall’estero, o che assumessero debiti eccessivi per finanziare progetti dal rendimento sopravvalutato; in tal senso, risulta imprescindibile una rigorosa applicazione dei criteri di due diligence alle attività (Sciorati, 2020).
A fronte di tali perplessità, sarebbe tuttavia inopportuno svalutare l’impatto che la BRI potrebbe avere nel territorio dell’Unione, in particolare in prospettiva di una – necessaria – modernizzazione infrastrutturale e rivitalizzazione del Mediterraneo, dove gli interessi europei e cinesi convergono, anche nel perseguire obiettivi di sviluppo e stabilizzazione dell’area MENA. L’Europa si colloca nel mezzo della competizione tra Stati Uniti e Cina, necessitando di IDE cinesi e contemporaneamente non potendo recidere il legame con gli alleati transatlantici, nonostante l’approccio controverso della politica estera dell’era Trump nei confronti dei partner europei. In altre parole, l’Europa deve ricollocarsi nella nuova dimensione assunta dalle relazioni internazionali, ricercando una sintesi che possa valorizzare efficacemente il suo ruolo. A tal fine è fondamentale un’azione concertata delle politiche infrastrutturali e industriali degli stati membri, che costituiscano un fronte compatto dinanzi al dinamismo cinese, evitando di procedere in ordine sparso come avvenuto in tempi recenti; in altre parole, è necessario un ampio piano di coordinamento che preveda la condivisione di informazioni e la predisposizione di politiche complementari, oltre a chiarire aspetti legali e regolatori nell’interesse comunitario. Del resto, la natura stessa della BRI è orientata ai principi di collaborazione, sinergia e dialogo in un’ottica reciprocamente vantaggiosa, un approccio mite se confrontato alla prassi tendenzialmente aggressiva statunitense (Lamperti, 2019), che tuttavia non deve indurre ad abbassare la guardia, essendo la logica del “primus inter pares” il fine ultimo della strategia cinese.

M. Da Prada per B.Cy.

Riferimenti Bibliografici 

  • Confetra, SRM, Belt and Road Initiative Position paper, in https://www.confetra.com/wp-content/uploads/Position-paper-Bri.pdf
  • Confindustria, Progetto Belt & Road Confindustria: “Promote Companies, Encourage Participation” Project outline, in https://www.assolombarda.it/servizi/internazionalizzazione/documenti/project-outline-1
  • Dossi, S. (2020), Italy-China relations and the Belt and Road Initiative. The need for a long-term vision, in “Italian Political Science”, Volume 15 Issue 1
  • Fardella, E., Prodi, G. (2018), The Belt and Road Initiative and its impact on Europe, Valdai Papers
  • Groening P., (2020), Participation in the Belt and Road Initiative: Who Joins and Why?, Honors College 595, The University of Maine
  • Hui Lu, Rohr C., Hafner M., Knack A., (2018), China Belt and Road Initiative, RAND Corporation, Santa Monica, Calif., and Cambridge, UK
  • Isolani G., Liccardo G., Maher D., McCONWAY N., (2020), Le rotte della Nuova Via della Seta: quali opportunità per gli investitori?, Amundi
  • Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (2020), Osservatorio Economico Cina
  • SACE SIMEST, La lunga corsa dell’export Made in Italy in Cina, in https://www.sacesimest.it/education/dettaglio/esportare-in-cina

 

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