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La risposta cinese alle crisi globali: piani quinquennali “quality-oriented”

La Repubblica Popolare Cinese (PRC) è stata protagonista assoluta della storia economica mondiale dalla fine degli anni ‘70. Ad oggi annoveriamo l’economia cinese tra le prime e più influenti potenze su scala globale, seconda solo agli Stati Uniti.

La comparsa della Cina tra le grandi potenze mondiali coincide con il ritorno al potere, nel 1978, di Deng Xiaoping, seguito poi da diversi dirigenti politici: si avvia così una graduale apertura al commercio estero, favorita anche dall’entrata di investimenti stranieri in vari centri urbani costieri. Questo segna l’inizio della riforma che avrebbe poi modificato radicalmente l’assetto socio-politico-economico del Paese. I nuovi programmi politici si rivelano essere efficaci e sanciscono il punto di partenza di una forte crescita economica.. Il Pil cinese (Fig. 1) dal 1978 al 2003 è cresciuto di circa 8% l’anno, contro il 5% annuo nel periodo maoista (1952-1978), sfiorando l’11,9% nel 2007 per poi diminuire fino al 6,5% negli ultimi dieci anni. Nel 2020 si registra una crescita del PIL su base annua pari al 6,14% (Fonte: index mundi).

Figura 1: Tasso di crescita del PIL(%) dal 1978 al 2018 (Fonte: Elaborazione S24O su dati World Bank e IMF)

L’effetto delle nuove riforme statali condusse, in maniera piuttosto celere, a una totale trasformazione del sistema produttivo e della struttura statale. Nonostante ciò ha mantenuto un’arretratezza interna a livello di agricoltura e di servizi tradizionali, settori ancora sottosviluppati che limitano in parte il processo di accrescimento.

Nel 2001, il miglioramento dei rapporti con i partner commerciali venne consolidato dall’ingresso della Cina nella World Trade Organization (WTO), facilitando così nuove opportunità per l’espansione delle sue esportazioni. La sua adesione fu favorita dall’eliminazione graduale di barriere tariffarie, quali i dazi sulle importazioni, e non tariffarie, come ad esempio quote e licenze limitanti il numero di prodotti importabili.

La struttura economica cinese si incentra prevalentemente su tre componenti: esportazioni, investimenti, industria; riguardo alla prima componente, possiamo affermare che il Paese è riuscito a diventare esponente di punta dell’export mondiale sfruttando la manodopera a basso costo, la quale ha consentito un forte aumento della produzione di cospicue quantità di merci a un livello di retribuzione salariale irrisorio. Questo ha fatto guadagnare alla Cina l’appellativo di “Fabbrica del mondo”.  La capacità manifatturiera locale in alcuni settori, unita all’impiego di tecnologie straniere, ha permesso di realizzare prodotti a prezzi non riproducibili nei mercati occidentali.

Nello specifico, nell’ultimo decennio, il 40% del PIL è stato dedicato agli investimenti. Si è innescato un meccanismo di produzione superiore rispetto alla capacità di consumo interno, la differenza viene dunque destinata all’export; ciò conduce a un elevato surplus nella bilancia commerciale. Nel seguente grafico (Fig. 2) è rappresentato l’aumento delle quote di export tra il 2000 e il 2015, dove si è passati da un 4% a un 13,4%, con un ammontare di esportazioni pari a 2,270 miliardi di dollari (Fonte: index mundi).

Figura 2: Esportazioni cinesi periodo 2000-2015 (mld USD)  Fonte: Elaborazione su dati index mundi

Come si evince dallo stesso grafico, però, nel 2009 le esportazioni cinesi hanno subito un calo. Questo meccanismo di crescita, infatti, ha dovuto confrontarsi con un ostacolo enorme: la crisi finanziaria globale del 2008, scoppiata negli USA come crisi del mercato immobiliare. E’ divenuta poi una crisi finanziaria di portata mondiale, a causa delle ormai indubbie interdipendenze esistenti tra le varie economie a livello internazionali, rendendo palesi le conseguenze della  globalizzazione dei mercati.

Allo scoppio della crisi mondiale del 2008 la Cina, come già accennato, si trovava obiettivamente in una situazione commerciale favorevole, con surplus di bilancio in attivo in quanto il saldo tra import ed export era pari a 266,3 miliardi $. Tuttavia, sin da subito il Paese accusò l’impatto della “Grande recessione”. Le esportazioni verso le maggiori potenze economiche mondiali quali USA, UE e Giappone rappresentavano circa il 46% del totale e diminuirono come conseguenza della contrazione della loro economia. Dunque, la diminuzione di domanda di beni cinesi influì in modo negativo sul mercato interno, poiché calò drasticamente la produzione industriale.

Tra il 2008 e 2009 il tasso delle esportazioni, oltre a quello delle importazioni, calò del 15%. Si riscontra inoltre un calo degli investimenti diretti esteri in entrata, con una diminuzione di $30 miliardi rispetto al 2007; anche questo ha contribuito alla riduzione del tasso di crescita dell’economia cinese che ha iniziato ad arrestare lo sviluppo finanziario. Nel 2008, il tasso di crescita scese al 6,8% contro l’11,9% dell’anno precedente (Fonte: ISPI online).

Risultano essere ben chiari alcuni punti critici caratterizzanti l’economia cinese: l’instabilità dovuta a fattori esterni e un ingente risparmio domestico, unito a una bassa propensione al consumo. E’ stato assolutamente necessario un intervento immediato del Governo per ristabilire l’equilibrio precedente, tramite misure radicali che impedissero un peggioramento della situazione. Essendo quella cinese un’economia socialista di mercato in mano allo Stato, quest’ultimo aveva un potere decisionale e d’intervento molto forte. Riuscì quindi ad affrontare i problemi di recessione ed aumento della disoccupazione attraverso l’erogazione di pacchetti di stimolo fiscale ed economico e, soprattutto, cercò di invertire la rotta della liberalizzazione limitando gli investimenti esteri e incentivando l’economia interna.

Il programma di intervento poneva come basi 3 obiettivi strategici: equilibrio economico e sviluppo di una strategia di crescita a lungo termine basata in misura maggiore sul consumo interno, modernizzazione industriale e sviluppo sociale.

Esso ebbe effetti positivi e il Paese riuscì a riprendersi in tempi brevi.

Gli effetti di questo evento, nel periodo successivo, cominceranno a riflettersi sulle nuove politiche adottate: il programma cinese anticrisi, proiettato sul lungo termine e comprendente anche la rilevanza della sfera sociale e del benessere individuale (si cerca di limitare le conseguenze della crisi varando un piano orientato alla tutela dei cittadini cinesi e all’aumento dei posti di lavoro), ha difatti mostrato la necessità, dopo trent’anni, di abbandonare il modello di crescita incentrato sull’export e concentrarsi sulla transizione verso un’economia imperniata su una maggiore propensione al consumo interno e sui servizi.

Xi Jinping, attuale presidente della RPC dal 2013, ha avviato una serie di riforme atte a far fronte alle problematiche emerse nel tempo e, con il 13° Piano Quinquennale denominato “New Normal”, individua e ufficializza gli obiettivi che caratterizzano il nuovo corso dell’economia cinese, delineando una nuova visione del futuro.

I piani quinquennali sono strumenti di politica economica utilizzati proprio nei regimi ad economia pianificata, ovvero nei paesi socialisti dove l’iniziativa economica è in larga parte gestita da enti pubblici; individuano determinati obiettivi da raggiungere in un periodo di cinque anni nei vari settori dell’economia, secondo precise modalità.

In questo specifico caso, si rivela utile l’analisi della strategia per lo sviluppo economico e sociale del 13° e 14° Piano quinquennale, relativi ai quinquenni 2016/2020 e 2021/2025.

Il “New Normal” (2016/2020) sancisce l’avvio di una transizione economica varata sulla trasformazione da un livello quantitativo della produzione verso una visione “Quality-oriented”, quindi sostenibile e tecnologicamente avanzata.

Si pone particolare attenzione agli imprevisti che potrebbero verificarsi sia sul fronte esterno (commercio estero e politiche restrittive per gli investimenti cinesi in UE) che su quello interno, dovuti a eventuali tensioni e disuguaglianze sociali.

Il piano ipotizza un tasso di crescita annuo pari al 6,5%, decisamente più basso rispetto alla media superiore al 10% del passato, rivelatasi nella pratica insostenibile; inoltre, vi è una riduzione degli investimenti pubblici che hanno generato nel 2008-2009 la crisi da sovrapproduzione e l’aumento del debito. Parallelamente, si deve ridurre il peso che le esportazioni hanno nel PIL cosicché la crescita non dipenda dalla domanda estera volatile e si devono aumentare i consumi interni per risolvere il problema del “Saving glut”, cioè l’eccesso forzato dei risparmi e la bassa propensione al consumo domestico; in funzione di ciò, è stato stimato che entro il 2020 il settore dei servizi avrebbe dovuto rappresentare il 56% del Pil, diversamente dal 50,5% del 2015.

Altri due punti cruciali del piano sono l’aumento della produttività del lavoro del 6,5% e l’incremento degli investimenti per la ricerca dal 2,1 al 2,5% del PIL.

Il “New normal”, quindi, pone l’accento su di una crescita sì prosperosa, ma altresì moderata e sostenibile che miri a una trasformazione qualitativa del sistema produttivo anche attraverso la ricerca di un equilibrio tra aree urbane e rurali che permetta di spingere i consumi; vi è difatti un’alta disuguaglianza complessiva nei redditi e senza l’eliminazione delle disuguaglianze la domanda interna non può crescere.

Si tenta inoltre l’eliminazione della povertà tramite un incremento del 43% (da 7,5 a 11 miliardi di dollari) della spesa del governo centrale destinata a chi vive al di sotto della sotto la soglia di povertà assoluta (stimata intorno a 4mila yuan di reddito annuo, pari a circa 1,52 $ al giorno)(Fonte: ilfattoquotidiano.it).

Nel 2019, sono stati censiti 5,5 milioni di “poveri assoluti”, a fronte dei 56 milioni del 2015.

Seguendo il percorso già intrapreso, il 14° piano “China 2025” si inserisce in un periodo storico segnato da grandi turbolenze quali le conseguenze dell’attuale pandemia; tra i contenuti principali del piano risaltano il concetto di “Dual circulation” e di “Tech-self sufficiency”, la transizione dalla produzione di beni a basso costo a beni tecnologicamente avanzati.

Per “Dual circulation” si intende una correlazione tra la circolazione economica domestica e quella internazionale: osservando i dati economici il rimbalzo del Pil è dovuto anche all’aumento significativo delle importazioni.

Le opportunità di import aumentano proporzionalmente all’innalzamento della ricchezza del Paese, che di conseguenza spinge all’espansione della spesa interna; quest’ultima, nel 2020, ha contribuito per il 90% alla crescita economica.

Tale modello mira a promuovere un livello più elevato di apertura sfruttando contemporaneamente due risorse e due mercati; ci si è resi conto che le imprese non sono esenti dal fallimento e che si devono definire dettagliatamente le strategie economiche per creare un mercato liberalizzato e competitivo in linea con i modelli concorrenziali.

Un altro focus del piano si incentra sul reddito pro capite, definito come la quantità di PIL ipoteticamente prodotta da un singolo individuo in un certo periodo di tempo: l’obiettivo è quello di innalzare il suddetto indicatore ai livelli di una nazione moderatamente sviluppata entro il 2035, attuando politiche a sostegno dell’occupazione, del sistema educativo e del welfare (per esempio l’invecchiamento demografico è una problematica incidente e c’è bisogno di un adeguato sistema sanitario), con la speranza di poter innalzare i redditi.

Giungendo alla conclusione di questo approfondimento, in linea generale si può affermare che la Cina ha mostrato una pragmatica ed efficace attitudine nel riuscire a fronteggiare shock esterni, continuando la sua corsa verso una crescita più matura, moderata ed equilibrata rispetto agli anni passati.

Ciò è avvenuto soprattutto introducendo e facendo proprie alcune avanzate tecnologie dei paesi sviluppati che le hanno permesso di affermarsi a livello internazionale, ma la presenza statale è sempre stata influente e continua tutt’oggi ad ambire a progetti quanto più vincenti possibili.

Il Centre for economics and business research, famoso think thank inglese, ha previsto il sorpasso della Cina rispetto agli USA come prima potenza globale nel 2028, complice proprio una risposta più efficiente alla pandemia da Covid-19 e le diverse capacità di recupero dalla crisi.

Il paese nel 2020 è riuscito inaspettatamente a registrare un aumento dello 0,7% rispetto al 2019, la ripresa in un periodo considerevolmente particolare è stata determinata dal sincronismo tra prevenzione sanitaria e sviluppo socioeconomico; esaminando i dati del Fondo monetario internazionale rileviamo un aumento (rispetto al terzo trimestre del 2019) del 5,8% delle attività produttive e del 4,3% nel settore dei servizi.

Anche il valore di import ed export è cresciuto dello 0,7% rispetto al 2019(Fonte: sicurezzainternazionale.luiss.it).

In questa precisa fase storica di eccezionale rilevanza, la capacità di resilienza cinese ha favorito ambiziose collaborazioni e opportunità di investimento con aziende europee che percepiscono una valida possibilità per poter rilanciare la propria economia ormai devastata dall’attuale pandemia.

Dato l’evidente successo del 13° piano quinquennale, si nutrono grandi aspettative anche per il raggiungimento degli obiettivi del 14°: la Cina sembra ben avviata verso il tentativo di conquista della leadership mondiale e di consolidamento dello status di attore geoeconomico determinante nell’ambito delle relazioni internazionali.

Hanaa Ahmed Mohamed Ayoub per B.Cy.

 

SITOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

  • Chiarlone S., Amighini A., “L’economia della Cina”, Carocci (2007)
  • Musu I., La Cina contemporanea, Hoepli (2011)

 

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