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I dazi Usa e le conseguenze internazionali

Dopo che il presidente Usa Donald Trump ha annunciato nel marzo 2018 l’introduzione di dazi su acciaio ed alluminio l’economia mondiale ha aperto una fase di incertezza legata ai possibili esiti di una guerra commerciale. Del resto l’inquilino della Casa Bianca sta mettendo in atto nient’altro che il suo programma elettorale, ben compendiato dallo slogan: “America First”. La politica commerciale di Trump sembra aver preso una direzione ben definita abbandonando il percorso del multilateralismo che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, aveva contraddistinto le politiche commerciali americane, prima con il GATT e in seguito con il WTO, abbracciando una strategia più muscolare basata sui rapporti bilaterali. In campagna elettorale l’allora candidato repubblicano già denunciava le iniquità cui il commercio internazionale esponeva paesi come gli Stati Uniti nei confronti di economie quali la Cina, vero e proprio esempio di pratiche scorrette nei confronti dei partner internazionali. L’obiettivo dichiarato è la riduzione del deficit commerciale (Figura 1) che preoccupa le autorità statunitensi soprattutto in relazione all’uso che, di questo deflusso di capitali, viene fatto dagli esportatori cinesi.

Figura 1: mostra l’andamento congiunto della bilancia commerciale Usa e le importazioni Usa di beni da Prc (Repubblica Popolare Cinese). Dal grafico emerge come la bilancia commerciale abbia peggiorato progressivamente la situazione commerciale degli Usa. Nel dettaglio si nota che in corrispondenza della crisi del 2008 il dato migliora un po’ per effetto della recessione. Successivamente, seguendo anche il trend delle importazioni di beni dalla Prc, la bilancia commerciale riprende ad aumentare il proprio deficit.

Il timore principale è connesso alla mole di investimenti, diretti e finanziari, che imprese cinesi private ma soprattutto statali continuano a fare negli Usa. La prospettiva che uno Stato autoritario possa influenzare l’andamento economico di parti del territorio americano o fette dell’elités finanziaria mette in allarme Washington, soprattutto alla luce di come il gigante asiatico si stia muovendo a livello internazionale. Pechino da anni sta allargando la sua influenza in regioni quali l’Africa e in territori coinvolti nella cosiddetta “Via della Seta”, una fascia di Stati che collega la Repubblica Popolare all’Europa e allo stesso continente africano. In entrambe i casi ha proceduto prima alla costruzione di infrastrutture, grazie alla forza finanziaria goduta dalle sue imprese di Stato e all’economicità della stessa manodopera cinese. In seguito, l’esportazione di manodopera, ha condotto ad una sorta di “colonizzazione” di quelle terre dove cominciano ad emergere personaggi politici legati in maniera più o meno palese agli interessi di Pechino.

Tornando però al focus della questione, Trump al contrario sembra aver adottato questo nuovo stile diplomatico, oltre che con la Cina, anche con i suoi tradizionali partner. A ben vedere infatti il dazio posto sulle importazioni globali di acciaio ed alluminio in misura pari, rispettivamente, al 25% e al 10% non sembra aver l’obiettivo di scoraggiare solo le importazioni dal paese asiatico. Negli Usa le importazioni di acciaio ed alluminio nel 2017 ammontano a 29 e 17 miliardi di dollari, rispettivamente. I principali paesi che esportano acciaio ed alluminio negli Usa sono: Canada, Unione Europea, Russia, Corea del Sud e Messico. La Cina risulta solo undicesima in questa classifica, mentre Canada e Messico sono esentati dalla misura tariffaria per effetto del Nafta. Secondo la stima del dipartimento del Commercio Americano le importazioni si ridurrebbero del 38,5% per l’acciaio e del 17,3% per l’alluminio1.

Come abbiamo visto dai dati l’obiettivo non sembra tanto quello di colpire la Repubblica Popolare ma tradizionali partner internazionali della potenza americana come l’UE e la Corea del Sud e un nemico storico come la Russia di Putin. Il risultato sembrerebbe volto ad un riposizionamento economico-commerciale dal punto di vista globale. Il messaggio che questa amministrazione manda all’esterno ha il sapore di un forte ritorno ai confini della “dottrina Monroe” condita da uno stile diplomatico duro e intransigente. Se consideriamo le importazioni totali per paese (Figura 2), in una prospettiva di questo tipo, notiamo come gli effetti di una guerra commerciale, non considerando Messico e Canada sottoscrittori del Nafta, colpirebbero (o dovrebbero colpire) i flussi in entrata provenienti da: Cina, Unione Europea, Giappone e Corea del Sud. Gli ultimi tre paesi sono amici tradizionali e geopoliticamente strategici della potenza Usa. Un conflitto commerciale andrebbe necessariamente a ridefinire tali alleanze internazionali rischiando di compromettere alcuni rapporti di forza degli Usa in aree strategiche come il Sud-Est asiatico dove la crescita e la pressione cinese potrebbe fare breccia e modificare pesantemente il set di alleanze.

Non a caso sul fronte degli alleati Trump ha deciso di avallare una serie di esenzioni temporanee nell’ipotesi di mettersi attorno ad un tavolo e negoziare nuove relazioni commerciali. Tuttavia sembra sempre più probabile che gli europei, per stessa ammissione di alcuni autorevoli leader quali il presidente Macron, la cancelliere Merkel e la premier May, non vogliano cedere alle pressioni americane e sostengano l’ipotesi che l’esenzione da temporanea diventi permanente.

Figura 2: mostra la ripartizione per Paese delle importazioni americane del 2017. Al netto della posizione di Messico e Canada che sono agevolati dal Nafta e che, per questo, difficilmente potranno essere oggetto di una guerra commerciale, vediamo come i primi due posti della classifica siano occupati da Cina ed Unione Europea. In campagna elettorale l’attuale Presidente Usa si era già espresso contro la Cina ma nei fatti sembra chiaro che il secondo target della protezione siano tradizionali partner come Unione Europea, Giappone e Corea del Sud.

Analizziamo ora brevemente lo strumento utilizzato per perseguire questa strategia. Il dazio è uno strumento tipico di protezione dalla concorrenza internazionale caratterizzato da un’imposta indiretta ad valorem su un certo ammontare di merce importata. L’obiettivo del dazio che l’Amministrazione Usa ha sostenuto di voler perseguire è duplice: riduzione del deficit commerciale e aumento dell’occupazione, soprattutto nella cosiddetta “Rust Belt” che ha faticato così tanto a riconvertirsi alle nuove esigenze del mercato mondiale. Sul versante della riduzione del deficit una minor apertura può dare risultati positivi nell’immediato ma può avere effetti perversi nel lungo periodo, il deflusso di dollari verso la Cina è servito per anni a finanziare i deficit federali dei vari governi americani. Il Paese asiatico è così diventato uno dei principali sottoscrittori del debito a stelle e strisce. Sul lato occupazionale la concorrenza internazionale danneggia lavoratori con basse qualifiche, esponendoli ai bassi salari dei paesi in via di sviluppo. Contemporaneamente però avvantaggia le imprese esportatrici e i loro lavoratori. In generale, le variazioni di benessere legate al commercio internazionale, oltre che dal canale del reddito, passano anche per il canale della spesa. Generalmente gli individui sono infatti sia lavoratori che consumatori ed in quest’ottica vanno considerate le diverse situazioni per tipologia di soggetto.

Uno studio condotto da Borusyak K. e Jaravel X.2 sugli effetti distributivi del commercio internazionale, ripreso da lavoce.info3, verifica empiricamente sulla popolazione americana tali conseguenze sia dal lato dei consumi, che da quello dei redditi. Tale verifica evidenzia come le importazioni contino per il 13,7% del totale della spesa dei consumatori americani, senza sostanziali differenze nei consumi di queste tra i più e i meno istruiti. Maggiori indicazioni si evincono dalla tipologia di consumi tra le due categorie: i soggetti più istruiti consumano maggiori servizi, notoriamente più al riparo dalla concorrenza internazionale, rispetto ai beni di consumo. Mentre si verifica il contrario per i meno istruiti i quali prediligono consumare beni rispetto ai servizi. Nel considerare le tipologie lavorative, quindi il lato del reddito, si nota come soggetti più istruiti lavorino maggiormente nei servizi rispetto alla produzione di beni; anche qui avviene il contrario per i meno istruiti che sono maggiormente occupati nella produzione di beni. In particolare la maggior quota di individui “high skills” che lavora nella produzione di beni è occupata in aziende esportatrici e lo stesso vale per i lavoratori “low skills”. Concludendo emerge come il commercio internazionale muti la distribuzione del reddito e con essa la struttura di incentivi le quali possono favorire o sfavorire la base elettorale di questo o quel partito.

Inoltre nella valutazionea dell’effetto di un dazio è doveroso considerare il contesto in cui tale misura si va ad inserire. Negli anni ’80 l’imposizione di un dazio era se vogliamo meno problematica perché la produzione di un bene era spesso verticalmente integrata in un solo paese, quindi apporre una tale misura su un prodotto finito equivaleva a “punire” un certo paese invece che un altro. Dall’avvento della globalizzazione e l’emergere delle catene globali del valore si vede come abbia avuto inizio un mondo così interdipendente che la misura del dazio può essere controversa, fino ad essere considerata controproducente per chi la utilizza.

A quello che abbiamo detto finora c’è da aggiungere che neanche la Cina, nonostante le recenti posizioni prese dal proprio leader ai vari consessi internazionali, è da considerare quel campione del libero scambio che si proclama. Infatti sin da quando c’è stata l’apertura con l’ingresso nel WTO, essa ha mantenuto in piedi alcune pratiche che poco avrebbero a che fare con un clima di libertà commerciale. Una su tutte l’obbligo per le aziende che si vogliono stabilirsi sul territorio cinese di dover condividere tecnologie con le aziende cinesi, in una joint-venture che nel giro di pochi anni ha portato le aziende locali (spesso statali) a poter fare a meno del partner americano, licenziandolo. Così molte aziende di Stato sono diventate leader di settori tecnologici anche avanzati ponendo pressione al ribasso sui prezzi grazie alla loro grande capacità produttiva. Testimoni di questo scatto tecnologico sono gli obiettivi del Partito Cinese sintetizzati in “Made in Cina 2025”, i quali prevedono che un certo numero di aziende cinesi diventino leader di settori che fanno parte della recente rivoluzione dell’industria 4.0, legata alla robotizzazione e all’intelligenza artificiale.

Anche se non risultava essere l’obiettivo principale dell’offensiva politica, il governo guidato da Xi Jinping ha risposto il 2 aprile con una misura compensativa rispetto a quella americana imponendo dazi del 25% su 128 categorie di prodotti americani per un controvalore stimato di 60 miliardi di dollari. A quel punto non si è fatta attendere la replica americana che il giorno successivo ha annunciato l’introduzione di un’aliquota del 25% su 1333 categorie di prodotti, anch’essi per un controvalore di 60 miliardi di dollari, il tutto atto a contrastare la pratica dei trasferimenti forzati di tecnologia e proprietà intellettuale emersi a seguito di una indagine del Dipartimento del commercio americano. A dimostrazione che la guerra commerciale era iniziata la replica cinese non si è fatta attendere, infatti ha risposto immediatamente individuando altri 106 prodotti americani su cui apporre un dazio per un valore di 50 miliardi di dollari. Seguendo la tipologia di prodotti colpiti dalle tariffe, i due paesi tendono a “specializzare” le proprie misure commerciali in particolari segmenti. Mentre la Cina si concentra sulla produzione di beni e comunque segue una linea che colpisce prodotti a basso valore aggiunto, gli Usa fanno l’opposto, concentrando la loro protezione su prodotti tecnologicamente più avanzati.

In ogni caso il governo cinese difficilmente taglierà 100 miliardi di surplus come richiesto dall’omologo americano perché ciò significherebbe modificare profondamente la strategia industriale del Paese. La Cina risulta essere infatti il grande assemblatore mondiale e anche cambiare fornitori non risulta essere una strada percorribile almeno nel breve periodo. Una soluzione possibile potrebbe essere un nuovo negoziato multilaterale che ponga al centro dell’agenda una maggior apertura del mercato interno cinese caratterizzata dalla fine delle politiche predatorie per quanto riguarda tecnologia e know-how, dall’apertura ai servizi finanziari ed assicurativi esteri oltre che del mercato degli appalti pubblici.

Alla luce di questo duro scontro i mercati non hanno reagito in maniera positiva (Figura 3) poiché iniziano a scontare le aspettative di una guerra commerciale, un fattore di forte rischio per la crescita mondiale. Sia il Dow Jones Industrial Average che lo Standard e Poor’s 500 hanno fatto registrare un calo rispettivamente del 7,6% e del 6,4% dal picco del 2018 raggiunto a fine gennaio, momento in cui il leader Usa si apprestava ad aprire il dossier sulla sicurezza nazionale, fino ad aprile. L’aumento dei prezzi dei beni in Usa e Cina, due dei principali motori dell’economia globale, in un mondo così globalizzato è pericoloso principalmente perché la crescita in questi anni è stata fortemente trainata dall’apertura progressiva di nuovi mercati e dall’aumento del commercio internazionale che ha permesso anche di ridurre la povertà in molte aree depresse del pianeta, Cina in primis.

Figura 3: mette in evidenza l’andamento dei due indici americani SP 500 e Dow Jones nel periodo tra gennaio 2017 e aprile 2018. In particolare si nota come da febbraio 2018 entrambe gli indici rallentino la salita scontando gli annunci di interventi in materia commerciale fatti dall’Amministrazione Trump all’apertura del dossier sulla sicurezza nazionale cui tali politiche sono state legate.

Un aspetto di considerevole rilievo risulta essere il fenomeno denominato “trade diversion“. Questo si verifica quando, a causa di una misura protettiva (Usa) il mercato di sbocco di un grande produttore (Cina) viene meno. In questa situazione c’è il rischio che la grande capacità produttiva del colosso cinese si riversi su altri mercati, come quello europeo, creando una forte pressione al ribasso sui prezzi contribuendo ad aumentare i danni provocati dalla politica statunitense. In questa prospettiva alcuni leader europei si sono già detti pronti a rispondere in maniera uguale e contraria al loro storico alleato d’oltreoceano.

Oltre alla Cina che ha già messo in atto alcune contromosse andando allo scontro con gli americani, anche gli Stati europei, pur tentando di aprire un dialogo, hanno cominciato a pensare alle contromosse possibili. Entrambe, cinesi ed europei, stanno iniziando a valutare una possibile “rappresaglia” valutaria. Lo yuan cinese si è apprezzato nei confronti del biglietto verde del 10% nell’ultimo anno, questo consentirebbe alle autorità asiatiche uno spazio di manovra notevole per rispondere ai venti di guerra americani. Tuttavia per la Cina la via della svalutazione è diventata un percorso su cui è necessario utilizzare molta prudenza poiché il rischio legato ad essa prevede la possibilità di una ingente fuga di capitali, come accaduto nel 2015 quando la People’s Bank of China dovette fare un intervento sulle riserve da 1000 miliardi di dollari. La possibilità di mantenere una moneta svalutata è contemplata, sebbene come ipotesi residuale rispetto ad un accomodamento, anche dall’Europa la cui moneta nei confronti del dollaro si è apprezzata del 14,5% nel 2017. Per questa via un dollaro troppo rivalutato rischierebbe di perdere appeal nei confronti di quella galassia di monete minori che ad esso si sono agganciate. Un esempio è quello del dollaro di Hong Kong, la cui Banca Centrale in queste settimane di turbolenta volatilità è dovuta intervenire per stabilizzarne il valore. Infatti l’aumento di volatilità intorno al dollaro potrebbe anche rischiare di fargli perdere parte di quella fiducia di cui gode globalmente creando altri problemi, ancora più scottanti, al governo americano.

1   Fonte dati: http://www.lavoce.info/archives/51839/guerre-commerciali-donald-trump-contro-tutti/

2   Borusyak K e X. Jaravel (2017), “The distributional effects of trade: theory and evidence from the United States”, Working Paper.

3   http://www.lavoce.info/archives/51803/dazi-li-conosci-li-affronti-meglio/

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